Contributo di Chiara Taverna

Ad Achille fu chiesto di scegliere tra una vita senza gloria, ma lunga, e una breve, ma dalla fama eterna.

La madre lo supplicò. La madre pianse. Achille scelse. La sua gloria attraversò spazi e tempi, innescò racconti e generò emulatori. Fino ad oggi. 

Achille fu famoso, non felice.

Oggi non ci viene chiesto di scegliere, la scelta è già stata compiuta per noi: ci viene detto che avremo una vita lunga, molto lunga, sempre più lunga. Siamo senza limiti, possiamo tutto. La fama si misura in like o follower. 

Ci sono quelli fortunati o bravi o furbi che sono riusciti a fare un business del pollice all’insù. Nell’antica Roma i gladiatori più amati avevano la stessa fortuna e gli stessi follower, che poi si stancavano e il pollice ne decretava la morte: fisica, la loro; sociale, la nostra. I follower si trasformano in hater. Odi et amo. 

Quello era un cuore struggente, che dilaniato dall’amore per la sua amata non riusciva a decidersi se provasse più odio o più amore. L’aveva stretta tra le sue braccia, i suoi occhi lo avevano fatto innamorare, avevano passeggiato, avevano intrecciato mani. Amo et odi. 

Ora. Nel web. Senza conoscersi. Senza contatto. 

Achille viene narrato in ogni epoca in modo diverso. Ebbe la fama e la gloria, ma combatté per un ideale comune. Forse. Mi piace credere che fosse così. O per Patroclo. In ogni caso, mosso da un sentimento di appartenenza. 

Noi non apparteniamo più a nessuno. Non ci piace questo termine perché lo confondiamo con il possesso. Possediamo un telefono, una casa, un’auto. Una donna. Un uomo. I figli. Noi abbiamo perso il senso di appartenenza. Nemmeno religiosa, anzi soprattutto religiosa. E la nostra società diventa anonima. Se non c’è caratterizzazione, non c’è appartenenza. Se non sono fiero di appartenere pur non appartandomi, non sono nessuno. Una massa informe, uguale, atona e afona: anonima. Come posso sentirmi fiero di appartenere ad essa? Eppure voglio da essa il riconoscimento di esistere. Con un like. Come il gladiatore. La sua vita dipendeva esclusivamente da quel pollice. La nostra potrebbe essere diversa se solo cominciassimo a cambiare il paradigma. 

La comunità è la risposta. Vivere insieme. Condividere. Costruire. Litigare, divertirsi. Discutere. Raccontarsi ed ascoltare. Dialogare. Solo nella comunità esiste il dialogo. Perché c’è appartenenza. Perché mi riconosco in essa e gli altri mi riconoscono in essa. C’è reciprocità in una comunità. Nella community virtuale, no. 

Vivere insieme genera domande, provoca risposte, mette in dubbio il proprio agire, acuisce i sensi, rende più aperti alle diverse esperienze. Vivere insieme è fatica, ma fatta insieme. Espone al dolore, perché ci si conosce tutti, perché si impara a volersi bene e il problema di uno diventa il problema di tutti.

Vivere in una comunità significa trovare il giusto equilibrio tra il proprio spazio, il proprio io e gli altri. I miei bisogni e quelli degli altri. Vivere in comunità non porta a rinunciare a sé, ma a espandere il proprio sé fino a incontrare l’altro, ricevendolo, accogliendolo.

Vivere insieme porta alla pazienza, all’esercizio della tolleranza, al non giudizio. Vivere in comunità porta a adeguare il proprio passo a quello di tutti gli altri, a volte fungendo da trascinatore, a volte da trascinato, ma sapendo che mai si sarà lasciati indietro.

Appartenere ad una comunità significa aprirsi al mondo, conoscerlo, rispettarlo e magari un po’ cambiarlo, partendo dai piccoli gesti che nascono al proprio interno.

Non so se la mia vita sarà breve o lunga, ma sicuramente sentirmi parte di una comunità mi rende felice. E la felicità è più duratura della gloria.